Testimonianze

FILIPPO DE PISIS (1953)

In una giornata piovosa nell’Ottobre del 1952 ebbi occasione di conoscere Jean Calogero presentatomi da un comune amico. Mi sottopose per ricevere una mia opinione una sua monografia dalla quale ho dedotto che il suo talento e la sua opera artistica potranno avere una risonanza mondiale.

1973 La pittura di Calogero. Di Marcello Camillucci. Edizione Galleria Pinacoteca Roma

GINO SEVERINI “ Ici Paris" (1953)

Ho conosciuto Jean Calogero nel 1947 anno in cui lo stesso si stabilì a Parigi proveniente dalla sua Sicilia. In occasione di un incontro avvenuto nel mio studio mi sottopose alcuni suoi disegni, tempere e qualche pittura fatta su cartone perché mi disse che non aveva le possibilità economiche di dipingere su tela. Volle il mio giudizio e poiché notai molto il suo talento, lo rassicurai sulla sicura riuscita del suo avvenire e rendendomi conto delle sue condizioni molto disagiate, lo incoraggiai narrandogli la mia odissea iniziata nel lontano 1910 contro la fame assieme ai miei amici Picasso, Modigliani, Soutine, Kisling e tanti altri. Lo indirizzai presso qualche galleria e ricordo ancora oggi il suo pallore e lo scoraggiamento scomparvero perché notò in me un fraterno amico.

1973 La pittura di Calogero. Di Marcello Camillucci. Edizione Galleria Pinacoteca Roma

FRANÇOIS C. TOUSSANT (1958)

Calogero … il suo nome musicale sembra derivare dall’alterazione della parola calligrafica. Questa può essere la definizione migliore del suo stile. Da quando lo spazio sovrappopolato può entrare nella vita solo tramite autoaffermazione e tecnica accurata, Calogero non ha mai usato la netta e austera linea di una architettura esistente. Ma la sua linea è lontana dall’essere insignificante. È come se vedesse attraverso una finestra appannata o riflesso in uno stagno increspato dal vento. Ma bisogna fare un paragone tra la fila modellata dei pilastri delle chiese italiane e le severe colonne classiche, per vedere che la visione di Calogero aumenta. In realtà Venezia gli ha insegnato tutto questo. I paesaggi della Concorde, di Roma o di Venezia, seguendo il nostro occhio mai immobile, danzano sempre un lento, allegro e garbato minuetto molto simile a quello dei palazzi riflessi nei canali e nelle fontane. Sempre mutevole e versatile Calogero si ritiene maestro di ogni tecnica e di ogni mezzo. I suoi dipinti non sono mai sovraccarichi di ornamenti: rilievo di stucco per i palazzi, superfici piatte per i fiori, stupenda trasparenza di vetro, magnificenze di pietre e gioielli a volte poste in vasi; delicati, quasi femminili contorni con ponti si fondano in una armoniosa linea orizzontale. Questo alternarsi, questa prodigalità, questa padronanza dei colori e delle forme danno la sensazione di toccare il vero quadro … Guardando ad uno ad uno i suoi dipinti (o meglio a diversi) si può scommettere che l’arte sensibile e alquanto sensuale di Calogero sia sostenuta da una forte abilità di artista che dà al suo mondo una freschezza che sembra quasi naturale in quel momento. Così, nella sua orchestrazione finale, questo mondo strano e barocco, pieno di vita, fatto di memorie, e forse di presentimenti, è così esatto nella sua dissertazione che i più severi classicisti lo invidierebbero. Questo è il motivo per cui questo mondo affascina il critico perspicace nella stessa maniera di un sensibile amatore.

1973 La pittura di Calogero. Di Marcello Camillucci. Edizione Galleria Pinacoteca Roma

PATRIZIA CALOGERO

Jean Calogero: tanti ne hanno parlato, ne parleranno, lo ammirano. Altri lo contestano: l’artista, il surrealista … Per me, soltanto mio padre.
E una fortuna “vivere” un artista. Da adulta, oggi, comprendo l’eccezionalità di quello che, da piccola, consideravo normalità.
Io penso che artista non sia un modo di essere: artisti si nasce.
Sin da bambino mio padre aveva evidenziato una particolare inclinazione per il disegno e ne era attirato in maniera incredibile, mi diceva. Sentiva il bisogno di imprimere (indistintamente con gessetti colorati o carbone) e trasferire la sua arte ovunque capitasse: sui muri, per terra, sui quaderni scolastici, su pezzi di lenzuola rubati alla mamma. Invece di andare a giocare per le strade con i suoi coetanei, come tutti i bambini del mondo, preferiva isolarsi e dare sfogo alle sue infantili fantasie, su pezzi di carta trovati per strada e dava vita a cose meravigliose che solo lui poteva sentire e vedere perché nascevano da dentro sé.
La sua famiglia d’origine era molto povera e tutti i membri cercavano di contribuire ai bisogni facendo ogni tipo di lavoro – anche umile – ma con onestà e dignità.
A poco più di sei anni papà iniziò a lavorare da un calzolaio. Il suo compito era quello di raccogliere tutti i chiodi che gli altri lavoranti facevano cadere per terra. Era un lavoro monotono che gli spezzava la schiena a furia di stare sempre chinato, ma la sua grande soddisfazione era quella di consegnare alla madre le cinque lire della sua umile paga. Questo lavoro non durò molto perché il principale lo sorprese mentre, accovacciato sulle gambe e con i chiodi raccolti in mano, creava disegnini sul pavimento: fu subito licenziato. Fece tanti altri lavori ma aveva sempre nel cuore la sua vera passione: l’arte.
La mattina andava a scuola e il pomeriggio al lavoro, ma appena la sera tornava a casa, si isolava da tutto e da tutti e iniziava a disegnare permettendo alla sua fantasia di materializzarsi in forme e colori. Solo in quei momenti si sentiva veramente appagato. “Quegli istanti erano la mia vita” mi raccontava “e la mia vita era aspettare quegli istanti”. Intanto gli anni passavano e la sua sete per la pittura che cresceva sempre più gli fece capire che era giunto il momento di fare qualcosa. Si rivolse ad una illustre famiglia catanese che lo mandò con una lettera di presentazione da un noto pittore catanese, artista molto valido e grande uomo: Roberto Rimini.
Papà trovò in lui non solo un maestro e un amico affettuoso ma anche il padre che non aveva avuto. Con il suo aiuto fece notevoli progressi e incoraggiato da lui si iscrisse al Liceo Artistico di Catania e cominciò a frequentarlo fin quando – proprio quando pensava che le sue sofferenze fossero finite – scoppiò la seconda guerra mondiale che gli fece interrompere gli studi. Furono anni terribili e molte persone come lui, soffrirono la fame, la sete, umiliazioni, freddo, miseria.
Queste sue ferite morali non si cicatrizzarono mai.
Grazie a Dio mio padre uscì illeso dalla guerra e nel 47 e con il coraggio di chi non ha niente da perdere e l’audacia della gioventù, decise di andare a Parigi. Non aveva soldi, non conosceva la lingua, ma aveva la testardaggine di un leone e voleva anzi doveva, a tutti i costi – realizzare il suo ideale artistico. I primi anni furono duri: a Parigi trionfavano i grandi maestri della pittura mondiale. Che speranze poteva avere un giovane ventenne catanese in quella metropoli? Ma si sa, quando si è giovani, si è ricchi dentro. Con grande volontà volle sfruttare questa dote e anche il destino sembrò essere diventato suo alleato quando, al consolato italiano, conobbe Monsieur Cabeccia, un gentile signore bolognese che non solo credette subito in lui e nel suo talento ma gli diede un cospicuo aiuto finanziario e lo presentò al pittore Gino Severini
Con orgoglio partecipò ad una collettiva dal titolo “Pittori italiani a Parigi” organizzata dal Consolato italiano e in questa occasione non solo si rese conto – con legittima soddisfazione che i suoi dipinti rivelavano una loro personalità e originalità e venivano notati dai visitatori più curiosi ma ebbe la possibilità di conoscere il grande Filippo De Pisis e lo scrittore Pitigrilli.
Intraprese quindi rapporti lavorativi con una galleria parigina che operava anche negli Stati Uniti. Il miracolo si stava compiendo: ciò che da bambino aveva sempre desiderato stava per essere esaudito. Si stava affermando nel grande mondo delParte! Si legò di gratificante amicizia con personalità illustri: Raul Dufy, Maurice Utrillo, Fernand Leger.
Nel 1951 Bing Crosby, affascinato dallo stile, dai colori unici e dalla sua esplodente ed incisiva personalità, comprò presso la Galleria Madsen di Parigi, parecchi suoi dipinti e con grandeentusiasmo promise che gli avrebbe organizzato mostre a New York e Los Angeles.
Mantenne la promessa e nel 1952 mio padre parti da Parigi con un invidiabile contratto per gli USA e con le sue mostre ebbe un successo incredibile. Gary Cooper, Judy Garland, Robert Mitchum, Gregory Peck erano diventati clienti ed ammiratori delle sue opere e volevano nelle loro collezioni private almeno un suo dipinto! Il soggiorno a Los Angeles è sempre nella sua memoria come il periodo più bello della sua vita.
Gli anni a seguire furono una continua ascesa verso il successo: era ormai diventato un nome” nel mondo dell’arte e realizzò mostre in quasi ogni parte del mondo.
Parigi restò sempre la sua seconda patria e li, ai piedi di Mon(matre, al numero il di Boulevard de Clichy fissò il suo atelier acquistando lo studio che era stato di Degas. I mercanti con cui lavorava gli diedero il nome francese jean.
Nel 1958 la città di Parigi lo premiò con la Medaglia d’argento, massimo riconoscimento ad un artista vivente che era già stato dato ad Utrillo, Braque, Dufy, Derain, Picasso, e nel 1959 venne inserito nel famoso dizionario dell’arte Benezit.
Mio padre è stato un uomo fortunato e per me è la dimostrazione che la vita può cambiare in meglio: è nato povero in una famiglia troppo impegnata a sopravvivere per porergli dare quell’amore di cui il suo animo sensibile bisognava. E morto sereno, appagato, felice nello spirito e nell’anima, circondato e pieno del nostro amore. Era il suo karma. Ha inseguito i suoi sogni e li ha fatti diventare realtà.
Non è stato un padre presente e ciò nonostante la sua presenza-assenza ha reso unica la vita di mio fratello e mia colorandola di quella magia che gli altri “vivono” ammirando le sue opere. Lui c’era sempre: la sua presenza si respirava tra l’odore acre della vernice e dei colori che aleggiava per casa, o nella magia della musica classica ad alto volume che proveniva dal suo studio. C’era “surrealismo” nelle storie fantastiche che ci raccontava e che narravano di cavalieri, cavalli alati, pesci volanti, pupi e principesse bellissime che nascondevano sentimenti ed emozioni dietro ad una maschera. Egli – grande uomo – deliziava noi con giochi di prestigio e con maestria, abilità e magia faceva comparire davanti ai nostri occhi increduli di bambini, nelle sue mani – sempre un po’ sporche di colore – oggetti presi dal televisore. Ha voluto sempre donarci quella serenità a lui negata, viziandoci, coccolandoci, facendoci credere all’esistenza di una realtà parallela dove tutto è possibile: l’immaginazione. C’erano poi i silenzi da osservare quando ci riunivamo a tavola per il pranzo. Papà saliva dal suo studio, sedeva con noi ma, inizialmente, stava in silenzio guardando nel vuoto, verso unpunto fisso. La mamma diceva che non dovevamo disturbarlo con domande o altro, perché lui era ancora nel “suo mondo”. In effetti doveva essere così, perché io, che gli stavo seduta di fronte e potevo osservare attenta ogni espressione del suo viso, lo vedevo lontano da noi. Mi sono sempre chiesta dove esattamente iniziava la vita e dove il sogno, quale fosse la sottile linea di confine tra le sue fantasie e noi …
Mio padre era un uomo colto, leggeva tanto, libri d’arte, testi in francese sulla reincarnazione, sulla filosofia indiana. A mio parere egli è riuscito a liberarsi da tante schiaviti e condizionamenti mentali per andare oltre il materiale. Era una persona semplice, schiva, metodica, organizzata, abitudinaria; trovava in piccole cose quotidiane – come andare in piazza Castello a chiacchierare con gente semplice o portare molliche per far mangiare i piccioni – la sua felicità.
Un pomeriggio, pochi anni prima che morisse, andai a cercarlo in piazza perché dovevo dirgli una cosa. Lo trovai appisolato su di una panchina al sole, con in mano la sua busta piena di pane spezzettato e tanti piccioni accanto. Quanto l’ho adorato in quel momento. Mi ha trasmesso una serenità che non dimenticherò mai.
Mio padre amava l’ordine ma, a modo suo. Potrei definirlo un “caos calmo”. Seminava schizzi, bozzetti dei suoi quadri, appunti di ogni genere, sulla moquette dello studio. Noi dovevamo seguire per le stanze un percorso attento prima di arrivare a lui e al suo cavalletto. Nessuno doveva pulire o mettere ordine li dentro: avrebbe alterato un equilibrio perfetto. Se non lo conoscevi mio padre dava l’impressione di essere introverso, musone anche un po’ distaccato e snob. In realtà era un burlone, con la battuta pronta, affabile con chi conosceva bene. Non capivi mai se quando parlava era serio o stesse scherzando.
Creare correnti di energia emozionale attorno al campo magnetico umano deve corrispondere necessariamente alle attitudini mentali, emozionali e fisiche di ognuno di noi. Ogni persona riceverà solamente gli impulsi corrispondenti alla propria sensibilità e capterà gli impulsi che corrispondono al suo grado di evoluzione interiore. Io penso che un’opera d’arte cambi in base a chi l’osserva. È lo spazio assoluto e infinito miracolosamente contenuto dentro un pezzo liscio di tela, una sorta di traduzione simultanea nel linguaggio delle emozioni. Gli artisti sono esseri puri nell’anima, pronti a percepire e donare ogni stimolo pervenuto nella loro mente, a captare e trasporre su tela la realtà che ci circonda e che noi non osserviamo più perché distratti, disorientati, assenti.
Mio padre mi ha insegnato a capire tutto ciò.

1973 La pittura di Calogero. Di Marcello Camillucci. Edizione Galleria Pinacoteca Roma

GIUSEPPINA RADICE

L’affermazione di Goethe circa le sue poesie che avrebbero tutto il carattere di una grande confessione è ulteriormente rafforzata da Hegel per il quale l’essenza dell’arte consiste nel portare l’uomo di fronte a se stesso. E un artista che si pone di frontea se stesso non può fare a meno di visualizzare la sua vita che prepotentemente emerge in personali formecolori segno della sua vitalità artistica: la ricerca della forma può avere successo soltanto se è condotta come ricerca di contenuto, scrive Arnheim.
Quando l’immaginazione diventa produttiva? Quando le forme diventano significanti? Significanti di che cosa? Di che cosa esse si sostanziano?
Sono domande che da storico dell’arte continuamente mi pongo, specialmente quando analizzo una vicenda artistica lunga e complessa già conclusa, compiuta, per cercare di ricostruire ed individuare senza pre/giudizi e senza alcuna pretesadi determinarne il valore in termini di assoluto le coordinateentro cui l’artista (gli artisti di tutti i tempi, a mio parere, in verità) ha creato forme.
Significative del suo pensiero, del suo rapporto col mondo e con l’arte.
Non esiste un criterio generale su cui basarsi e sarebbe, a mio parere, del tutto improduttivo e fuori luogo esprimere giudizi di valore per artisti che avanzano in modo diverso perseguendo alcuni un ideale dello spazio piuttosto che del gesto, della formao del colore altri che, come Jean Calogero, preferiscono lavorare cercando la migliore collocazione di elementi in un repertorio che si arricchisce ogni volta di piccoli particolari e a cui conterisce restringendone o deviandone il significato una suggestione lirica.
L’autenticità si rivela per lo spirito o per la tecnica? Per l’abilità nell’uso di un procedimento o per l’idea?
Domande.
A mio parere è a leggi poetiche individuali che si deve sempre far riferimento, pur che si abbia la necessaria, rispettosa attenzione che la ricerca di un artista richiede. Penso infatti chela funzione (auto)critica di un artista non compaia soltanto al momento finale quando egli valuta nel suo insieme il lavoro già fatto, ma accompagni in maniera del tutto naturale il suo operare con continui interventi che portano a cancellare, a scegliere , a rinforzare, ad ampliare un po’ di questo un po’ meno di quello per esprimere al meglio quella che è in fondo la sua piccola epersonale verità e non la verità. (!)
In fondo il fare artistico è stato sempre – mutatis mutandis – risposta ad una naturale esigenza creativa nata con l’uomo:
sendo dotato da Dio sì nobilmente, sì come radice principio e padre di tutti noi, rinvenne di sua scienza di bisogno era trovare modo di vivere manualmente; e così egli cominciò con la zappa ed Eva col filare. Poi seguitò altre arti bisognevoli e differenziate l’una dall’altra; appresso di quella seguitò alcune discendenti … è questa un’arte che si chiama dipingere che conviene aver fantasia e operazione di mano, di trovare cose non vedute, cacciandosi sotto ombra di naturali e fermarle con la mano, dando a dimostrare quello che non è sia.
E se l’ipotesi di Cennino Cennini che Adamo (proprio il marito di Eva!) dopo la meritata cacciata dal Paradiso terrestre sia stato non solo il primo uomo ma il primo pittore, appare azzardata solo fino a che non sia dimostrato il contrario – sembra – che i paleoantropologi concordino ormai nel riconoscere nelle pitture rupestri del xx e del xv millennio a.C. – e con altrettanta – validità non solo motivazioni sociali, animistiche o religiose ma anche un tema artistico in sé. Come dire: attraverso gli elementi necessari per qualsiasi forma di espressione (segno grafico, colore, tecnica, struttura e iconografia) anche nell’uomo preistorico affiorava – accanto al motivo antropologico – un motivo poetico e una ricerca estetica. La creatività è nata quindi con l’uomo e la personalità di un artista (ma anche di un uomo)è fatta sempre dell’accordo tra le intenzioni e i mezzi, tra le sue idee e il come le realizza.
Jean Calogero non ha scelto come nessuno di noi, d’altra parte il momento del suo inserimento nella storia: avrebbe potuto trovarsi in sintonia con la sua contemporaneità o trovarla incompatibile col suo temperamento. A contatto con grandi artisti ha vissuto un tempo (mi riferisco alla metà del ‘900) e ha abitato spazi (Parigi, New York, Los Angeles, Chicago, Giappone) che si potrebbero definire pericolosamente eroici dal punto di vista culturale nel senso più ampio del termine.
É come se il gioco di ogni esistenza umana fosse governato da due ruote della fortuna, una che decide le doti naturali che formano il temperamento di un individuo e l’altra che presiede al momento del suo accesso ad una determinata sequenza storica scrive George Kubler.
Non sempre la vicinanza e il confronto con realtà artistiche di alto livello è toutcourt un vantaggio: potrebbe anzi diventare un limite alla sua libertà espressiva o generare una sorta di comodo epigonismo. L’opera di ogni artista non è infatti irrelatané isolabile ma nasce dalla ricerca costante di una relazione organica tra una configurazione mentale e una sua concretizzazione. Queste riflessioni mi fanno pensare che Jean Calogero non abbia neanche scelto di fare l’artista: egli ha cercato la sua forma contemplando il mondo e rispondendo.
A suo modo. Semplicemente.
Facendo della sua pittura – in maniera tanto inconsapevole quanto irrinunciabile – il diario della sua vita. Di un’altra vita o meglio della sua vita in un altro mondo.
Il suo.
La pittura … non domandate come è fatta – scrive Savinio – la pittura ama se stessa. Indubbiamente quello che Jean Calogero ci mostra seppur organizzato attorno ad alcuni grandi schemi strutturali non è un mondo quotidiano: sembra anziché il suo vedere cominci dove finisce ogni possibilità di verifica obiettiva e che abbia privilegiato il tempo e lo spazio della fiaba come elemento ordinatore del suo universo: non solo non esiste ancora il tempo ma anche lo spazio appare profondamente disomogeneo, ineguale, diverso. Illo tempore – un eternamente presente che abbraccia le età più lontane – avviene tutto e il contrario di tutto: il mondo passato e il futuro, ogni persona, ogni luogo, ogni albero, ogni pietra, ogni oggetto deve/può comportarsi in maniera diversa: tutti i piccoli elementi, minuscoli meccanismi di un complesso marchingegno sembrano essere al posto giusto e perfettamente funzionanti.
Il phantasieren di Calogero è caratterizzato da una propensione all’abbandono favoloso ed al libero gioco del sogno e della fantasia; da una riconoscibilità che sembra avere ancora il primato tranne a venire sconfessata da alcuni elementi stranianti e straniati che egli inserisce con nonchalance nello spazio figurativo che con estrema perizia anzi ad arte costruisce per far sognare; da un realismo inevitabilmente artificioso e romanzato, raffinato e avvincente, appena sufficiente ad assicurare una relativa immedesimazione coi protagonisti delle storie; da un codice comunicativo che chiaramente invita ad andare al di là della realtà, delle sue apparenze e delle sue antinomie.
Una storia e un mondo né totalmente vero, né falso.
Mi chiedo quanto la scelta degli aspetti del mondo da rendere visibili e la rielaborazione fantastica di tutto ciò che è entrato nel suo campo percettivo sia stata consapevole o inconscia. È stata una conquista prerazionale (alla maniera dei Surrealisti)o post-razionale (necessità di ri/guardare una realtà mai facile con occhi ancora incantati)?
Io non l’ho conosciuto personalmente ma non lo immagino certo come un adulto (afflitto dalla sindrome di Peter Pan, sidirebbe oggi) che temendo di non reggere il peso di una vitanon supportata dalle illusioni si sia rifugiato in un mondo irreale. Karl Marx aveva teorizzato la necessità di rinunciare alle illusioni sulla propria condizione che è la necessità di rinunciare a una condizione che ha bisogno di illusioni; a me sembra invece quasi parafrasando questa frase lapidaria che Calogero sia del tutto emancipato dalle illusioni: non le cerca ostinatamente né idealisticamente nel passato né vuole fornire una spiegazione a interrogativi sull’esistenza e sul cosmo. Ha scelto di non emanciparsi dai sogni e per questo non propone soluzioni impossibili alle contraddizioni della realtà ma desidera offrire soluzioni possibili per un mondo verificabile soltanto nel suo artistico paradigma di vita.
È come se dicesse: non toglietemi il piacere di dare l’illusione della vita alle mie creazioni più irreali!
E questo sicuramente non per paura di affrontare la vita reale ma per affermare con forza la sua volontà di non affrancarsi dall’effimero per lui indispensabile, dalla sua capacità che invece rinnova continuamente di giocare con i suoi oggetti, le sue maschere; con gli improbabili cappelli delle sue signore incuranti di ciò che avviene intorno a loro o che amabilmente conversano; con pesci-mongolfiere-isole-castellivolanti guardati da eleganti e minuscole dame-silhouettes riparate da minuscoli ombrellini; con donne dall’incarnato di bambola che reggono una acconciatura-mondodellefavolesulla testa e il cui corpo è lo spaccato di un condominio fantasmagorico di luoghi riconoscibili o diversi da isola che non c’è ma che attrae col suo fascino prezioso e smaltato; con falsi teatrini falsi di tutti i giorni che ormai lasciano indifferenti i passanti; con cavalli bianchi e neri che riescono anche a danzare, reggendo con eleganza, in perfetto equilibrio e senza alcuna fatica costruzioni enormi ed ingombranti che non crollano rovinosamente soltanto per forza di fantasia; con combattimenti senza sangue ma con suono di corno.
De soi-meme è il titolo di un carnet nel quale Odilon Redon annotava i frammenti dei suoi pensieri:
ho fatto un’arte secondo il mio parere. L’ho fatta con gli occhi aperti sulle meraviglie del mondo visibile … per far vivere umanamente degli esseri inverosimili secondo le leggi del verosimile, mettendo per quanto possibile la logica del visibile al servizio dell’invisibile.
Ecco. Secondo la modalità della rêverie che a dirla con Bachelard ha il suo fine in se stessa, nella gioia e nella felicirà cheelargisce a chi le si abbandona, Jean Calogero fluttuando trala realtà vissuta momento per momento e la sua traccia riveduta e (anche ironicamente, a mio parere) corretta crea per noi episodi, circostanze, eventi che si svolgono sotto i nostri occhi e che rimandano ad un mondo parallelo vivo e presente come l’altro ma appartenente solo alla sua coscienza di artista. Sceglie di volta in volta se rendere visibili o lasciarli solamente intuire i nessi di una contemporaneità riconoscibile in parte ma, appunto, fuori dal tempo è nella quale noi non pensiamo affatto di dover intervenire.
E nessuno avverte quel senso di impotenza che la realtà qualunque essa sia (ahinoi!) genera.
Nel 1956 è andata in scena a Parigi La belle Arabelle, operettadi Guy Lafarge compositore francese di musique habile, descrittocome homme affable, charmant, charmeur, souriant, érudit.
Fa parte di questa operetta un gustoso ed elegante choralmixed a cappella, una sorta di madrigale moderno che descrivei carillons les boîtes à musique come meccanismi un peu fantastiques, magiques et mystiques, tantôt poétiques, tantôt sarcastiques. Avec un rien d’ingénu…
Per una sorta di immediata sinestesia mentre guardo eri/guardo la musica che accompagna queste parole e che viene cantata in polifonia affiora e risuona alla mia memoria musicale come colonna sonora delle opere di Calogero: tranne alcune esse non sono di grandi dimensioni e mi sembrano proprio l’equivalente visivo delle boîtes à musique: caractéristiques / desairs ironiques / aristocratiques / qui vous communiquent /l’émoi romantique / parfum des temps révolus. Una storia e un mondo né totalmente vero né falso si diceva ma incantato e prezioso: il suo yo, che si esterna attraverso il più idoneoróyog. Un nonnulla di ingenuo, una emozione romantica, un profumo del tempo che fu…

1973 La pittura di Calogero. Di Marcello Camillucci. Edizione Galleria Pinacoteca Roma

LAVINIA SPALANCA

All’età di 25 anni, dopo una breve parentesi romana in compagnia di Guttuso, il pittore catanese Jean Calogero si trasferisce a Parigi, dove riceve il battesimo dell’arte assumendo, in seguito a numerosi riconoscimenti, il definitivo nome di Jean Calogero. Interiorizzando la lezione impressionista e le ricerche avanguardiste, l’artista matura la sua ricerca espressiva dando prova di un’assoluta originalità, nella trasfigurazione estetica del proprio vissuto esistenziale. Gli anni trascorsi all’estero sono dunque fondamentali per la bildung del pittore, che a partire dagli anni Cinquanta darà forma al suo immaginario: un carnevale solo cromaticamente gioioso, coi suoi enfants musiciens invasi da una miriade d’oggetti colorati, dalle trombette ai copricapo di cartapesta, dalle biglie di cristallo agli acquari popolati di pesci informi; un teatro cristallizzato dal tempo perché «se tutto è veramente cambiato» – come scrive il conterraneo Vitaliano Brancati – «nel carnevale sembra che tutto si ritrovi e torni al punto di partenza». […]
È in virtù dello slancio immaginativo che il pittore percepisce un’affinità con la poetica del Surrealismo: «Io sono surrealista perché amo i sogni»; il suo linguaggio esoterico, per iniziati, presuppone infatti una concezione dell’arte quale «riflesso di una realtà parallela» a quella visibile, e pertantocome ricerca dell’invisibile, e l’ideale dell’artista come un visionario capace di «captare eventi particolari del futuro ma anche del passato». Lo si evince anche dai suoi dipinti anni ’60: fantasmagorie dai colori smaltati, luminosi squarci cittadini, nature morte affacciate su marine, palazzi incantati, metafisiche parate di cavalieri erranti, e poi il bric à brac degli oggetti, cabaret di frutta frammisti a maschere, affusolati lumi a petrolio, vasi di fiori. E naturalmente soggetti mitologici, frutto dell’identità mediterranea dell’autore, ma anche soggetti cavallereschi ispirati all’Ariosto, come attestano i suoi paladini duellanti pronti a deflagrare, o «le donne» e «i cavallier» che sembrano affatturati dal mago Atlante. Negli anni a seguire l’immaginazione del pittore non si arresta, ma si alleggerisce mediante l’uso sempre più astrattizzante del colore, che dalle tonalità calde e pastose, tipiche dei quadri del dopoguerra, trascorre ai toni freddi e argentei delle visioni anni ’80 e ’90.
Ma che rapporto intrattiene il pittore con le sue origini? Quali umori e suggestioni provenienti dalla sua terra – e in particolare dalla natia Catania – ne intridono i dipinti, all’insegna di «una via tutta siciliana al surreale»? Per rispondere a questa domanda ci soccorre l’acuta penna di un altro conterraneo dell’artista, a lui accomunato dalla medesima passione per la Francia: Leonardo Sciascia. Al viaggio reale – e simbolico – che porterà Giovanni Calogero, dalla città etnea, a rincorrere il suo sogno artistico nel fertile clima della Ville Lumière, corrisponde infatti l’itinerario letterario – e metaforico – che guiderà Sciascia all’acquisizione – mediante la lezione di Montaigne, dei philosophes, di Foucault – di una vocazione al dissenso e al libero pensiero, in una parola alla maturazione della sua poetica. […]

1973 La pittura di Calogero. Di Marcello Camillucci. Edizione Galleria Pinacoteca Roma

NICOLÒ D'ALESSANDRO

Uno degli elementi poco sondati nella vasta letteratura e nella fortuna critica del Maestro Jean Calogero è sicuramente la componente ironica dei suoi temi sempre diversi e sempre uguali tra l’assurdo e il quotidiano. Attua un gioco delle parti, un ribaltamento del conosciuto, un rovesciamento del comune senso logico tra il naturale e l’artificiale. L’aspetto ironico, preminente elemento nella fenomenologia dell’arte contemporanea, diventa linguaggio paradossale quando Calogero affronta l’assunto metafisico della realtà.
Raggela la scena rendendola disponibile alle interpretazioni più disparate. Lo stravolgimento di senso,giocato tra la fiaba e il surreale,conduce allo spiazzamento della realtà che è affidata all’uso degli inventati manichini, dei pesci dirigibili, dei castelli che portano al racconto divertito di un mondo contraddittorio assolutamente privo di certezze,alla rappresentazione del vero oltre il reale,alla rinuncia deliberata di significati intellettualizzanti. Voglio dire di atmosfera ironica e di sottile soffusa comicità poiché alla sua pittura, spazio di continua reinvenzione iterativa, attribuisco un valore di onestà intellettuale, di svincolo consapevole del conosciuto, riconoscendone l’assurdo delle rappresentazioni, le contraddizioni palesi della civiltà attraverso l’elusione, l’annullamento dei significati allusivi alla realtà. Mette a nudo le nostre illusioni borghesi.
Non esistono sentimenti o passioni nelle sue rappresentazioni, ne atteggiamenti morali. Rivendica con la sua arte il diritto di stare al mondo, di essere nel mondo da un osservatorio privilegiato, conscio del privilegio del proprio ruolo d’artista in un non luogo della pittura reinventata. Forse vuole convincerci che contro i luoghi comuni esiste, attraverso il mezzo pittorico, il senso della poesia come salvezza, come riscatto.
Nel 2010 ho curato una monografia di Jean Calogero. In quell’occasione, osservando con attenzione le opere, ho avuto modo di approfondire una vicenda d’arte lunga più di mezzo secolo per stabilire un tracciato che potesse restituire nella costruzione del libro la coerenza del pittore. Nel corso della lunga e approfondita ricognizione, sin dalle prime prove parigine che tanto hanno interessato il pubblico internazionale, mi sono convinto che l’artista si sia sempre rivolto al mondo infantile, in particolare ai figli Patrizia e Massimiliano, ispiratori della sua visione poetica dell’esistenza per stupirli, per accompagnarli con il linguaggio della fantasia e della fiaba nel cammino della vita attraverso il suo lavoro di pittore. Artista libero, gioca con loro. Gioca, sogna e induce gli altri a sognare.

Dopo il lungo soggiorno parigino ricco di successi e riconoscimenti, le numerose esposizioni in giro per il mondo, il grande interesse del mercato, ritorna nella sua Catania e mantiene il suo studio dividendosi tra la Sicilia e Parigi. Le bamboline degli anni cinquanta, le figure circensi ed irreali, i teloni, le strutture in legno cariche di maschere, gli ombrellini teatralizzano le invenzioni, che qualcuno ha definito, surreali d’influenza impressionista. Capovolge il senso realistico dell’immagine sostituendolo con il suo fantasma, la sua silouette. Ci troviamo da sempre davanti al lavoro di Jean Calogero sullo stupore perduto. Popolano dentro le scenografiche quinte del suo teatro personale, storie d’incanto da inventare. Le figure stilizzate creano luminose atmosfere eccessive, coloratissime. I valori timbrici esaltano l’impianto disegnativo. Sono pronte a recitare la parte loro assegnata in un’atmosfera fiabesca con un gioco voluto tra realtà e finzione. Sono flussi di pensieri trasformati in cavalli e ruote. Disegni senza ombre sono i cavalli e le damine-manichini con i grandi cappelli che passeggiano per le strade di Catania e di Parigi. Popolano, invadono le Città, diventano protagonisti di un mondo onirico, a volte velato di malinconia ma, soprattutto, diventano i soggetti che non sanno di essere osservati. C’è sempre aria di festa. Tra lumi a petrolio, uova e conchiglie. Lotte di cavalieri paladini e pesci dirigibili, torri e castelli in grandi acquari degli anni novanta, il suo intento è stupire in una affabulante teoria di figure che si spostano da un quadro ad un altro. Jean Calogero è un prolifico e disinvolto narratore che descrive un’unica storia, un lungo racconto iterativo sempre diverso e sempre uguale. La sua vicenda personale, lo sradicamento dal luogo della sua formazione e la conquista di Parigi incidono profondamente sul suo ruolo di abile inventore.

Chi scrive questa nota nel 1969, ventiseienne timido pittore di belle speranze, nella vecchia sede della Galleria La Robinia, di via Notarbartolo a Palermo, ha conosciuto per la prima volta l’opera del pittore Jean Calogero rimanendone affascinato. Conserva nel suo archivio il catalogo di quella mostra con la nota di Leonardo Sciascia.“Direi, ecco, – scrive – che Calogero è un surrealista quale poteva nascere in Sicilia; uno che non opera “l’epanchement du rêve dans la vie réelle”, ma totalmente sfugge alla vita reale.
Calogero sogna un paradiso perduto, un mondo di innocenza in cui i sensi dell’uomo soltanto conoscono e godono il dono dei frutti”. Rivelatori sono i numerosi disegni intimi della Sua Catania, i familiari soggetti tanto amati dall’artista come lo studio sulla festa di sant’Agata, il teatro Massimo Bellini, Castello Ursino, la fontana dell’Amenano, piazza Stesicoro, villa Bellini, il Porto, la Stazione, piazza Duomo e u Liotru, Ognina. Ma Catania è anche Venezia, il suo contesto lagunare e naturalmente Parigi della quale coglie il colore squillante, gridato. Ricostruisce Parigi come la città dei suoi sogni, la legge in chiave fantastica. Non è casuale che nei cieli dipinti della sua amata città riecheggiano i cieli plumbei di Parigi.E tutto riconduce alla sua Acicastello, luogo dal quale non si è mai allontanato.
Il disegno
Il disegno moderno rivela e introduce ai grandi stravolgimenti della pittura e della sensibilità estetica contemporanea. Un esempio per tutti è ciò che si evince nel disegno rivoluzionario di Picasso. Essenzialità e sintesi ne sono la struttura di base. Io, che di disegno da sempre mi nutro, non posso non fare accostamenti utili per collocare, storicamente parlando, il suo modo di disegnare che, lo ripeto, è il supporto indispensabile di tutta la sua pittura. Vitale l’esperienza francese legata allo stupore dell’artista catanese in cerca di fortuna, come tanti altri artisti provenienti da ogni parte del mondo attratti dalla cosiddetta “Scuola di Parigi”.Modigliani, Chagall, Lipchitz, Van Dongen, Foujita, Soutine e molti altri sono accomunati da una tensione immaginativa, con esiti diversi, in linea con lo spirito di avventura e la ricerca della propria cifra artistica, l’originalità della ricerca di forme espressive fortemente individuali, coerenti con il sogno di libertà che li aveva condotti a Parigi. Anche la scelta di Calogero non può che esprimere questa tensione che esploderà in pochi anni in una cifra pittorica personale. Penso ancora, per inevitabile associazione d’idee, tra le vicende culturali del nostro paese, ai disegnatori italiani, ai disegni di Felice Carena, Ardengo Soffici, di Trento Longaretti o di Pio Semeghini, Mario Sironi, ed altri. L’esperienza francese lo porta ad assimilare questa voglia di superare le proprie origini siciliane e proiettarsi consapevolmente in un clima figurativo internazionale. L’artista catanese ci riesce, mescolando generi, tecniche e sogni in sintonia con le arti figurative del tempo parigino.
Per sostenere ciò che affermo credo sia necessario anche un breve accenno sul significato del disegno in quanto linguaggio autonomo. Il disegno è la “probità dell’arte” diceva Ingres e Hokusai, il pazzo di disegno, diceva che il disegno è la dignità dell’uomo. È soprattutto “strumento di conoscenza” e in quanto strumento lo si deve saper usare. Insomma, per dirla con Bruno Caruso, il “disegno” è “saper disegnare”. E Jean Calogero sapeva disegnare, sapeva con la matita indagatrice, di svelare ciò che gli interessava. E nei quadri ad olio, nel suo territorio atemporale, composti da stesure sapienti di colore disciplina le ampie pennellate a spatola in piani sovrapposti e le esalta con il reticolo di segni. I valori timbrici rafforzano l’impianto disegnativo. Le architetture ne sono una prova. Reticoli, ragnatele di segni sostengono ogni soggetto. Manichini, pesci, torri e palazzi. Se negli impianti pittorici togliamo le trame grafiche, il quadro appare visibilmente monco.È destinato a percorrere altri destini.
Accanto alle opere ad olio già conosciute, grazie alle scelte di Patrizia Calogero e di Luigi Nicolosi che restituiscono con impegno e dedizione alla Città la memoria di un vero artista, credo sia importante far notare che i disegni e gli schizzi costituiscono l’aspetto fondante, il nucleo centrale del suo lavoro. Al di là della suggestione del colore, il disegno di Jean Calogero determina l’impianto compositivo. Traduce con esso la sua formazione accademica, il suo modo di prendere appunti e di rappresentare e,soprattutto,la rapidità del tratto. In un dialogo personale tra l’idea e la sua traduzione in segno.
Ogni disegno riesce a suggerire l’intera forma con la rappresentazione sintetica di una parte di essa. Nel duplice aspetto di opera in se, nel valore intimo e primordiale del disegno, autonomamente espresso e l’altra preparatoria rivolta all’opera “finita” del quadro. Tanto vero è ciò che si nota in molti disegni, nei piccoli schizzi, negli appunti, una cornicetta grigia, ad inchiostro diluito, che concentra e costringe il soggetto dentro confini ben definiti che riportano all’idea del quadro.

Sarebbe auspicabile una lettura completa dell’intera opera grafica del Maestro catanese per capire meglio le esperienze fondamentali che compiutamente metaforizzano, negli anni quaranta e cinquanta, quelle affinità di segno grafico riconducibili allo spirito del tempo in Sicilia. Penso ad Alfonso Amorelli, Gino Morici, Totò Bonanno a Palermo, Nunzio Sciavarrello e Sebastiano Milluzzo a Catania che portarono avanti nelle loro ricerche, se pur con esiti diversi, il denominatore comune dell’essenzialità del segno e la sua sintesi rappresentativa.
Credo che la chiave interpretativa si possa trovare proprio nel suo modo di disegnare a matita, nel segno calcato e deciso, a volte fluido e unito, in quell’appuntare con scioltezza le forme incorporate e immaginate. Semplici linee di contorno,spesso sovrapposte e di differente spessore, continue e fluide che accennano a zone d’ombra, che suggeriscono volumi. La sua padronanza che si traduce poi, figurativamente parlando, nel repertorio figurativo personale e irripetibile dei modelli osservati, adottati,studiati e rifatti con una esemplare caparbietà che lo rende autore di un unico immenso quadro. Tutto è sorprendentemente collegato in una storia esemplare che è sempre la stessa.
Non possiamo che immaginarlo giorno dopo giorno di fronte al cavalletto a costruire scene d’incanto, favole per bambini che affascinano anche gli adulti, deprivati nel tempo che scorre della magia dell’infanzia, poiché immalinconiti dal vivere quotidiano che allontana questa irripetibile stagione della vita. Quella breve stagione dello stupore e dell’attesa. Quella stagione vissuta come un tempo al quale si vorrebbe essere sempre leali, come una sorta di “ideale del sé” integro e incorrotto. Ed è qui, in questo spazio mentale, che agisce il sogno, la magia della fantasia attraverso il disegno che in Calogero diventa il supporto fondante che determinerà la tela dipinta.
La sua figurazione segnica è sostenuta da un ritmo nervoso e incalzante, quasi da impianto scultoreo, di chiara memoria e matrice espressionista. I disegni, che risultano essere quasi un diario intimo,(L’opera d’arte è sempre una confessione, diceva Umberto Saba)restituiscono l’idea di una preparazione al soggetto che successivamente costituirà l’ordito coloristico. L’artista rispetta l’impulso di partenza dell’idea che diventa immagine acquisita da una lungo esercizio immaginativo. Sembra utile osservare il valore privato dello schizzo, nella prima fase ideativa, le sue aspirazioni immaginative. Ed è proprio nel disegno che si manifesta la sua autenticità e spontanea incisività. Il colore viene decisamente molto dopo.“Il colore non si vede, ma si sente” amava dire Calogero.
La matita con segni nervosi e sicuri scorre veloce sulla carta e impone la forma osservata con l’immediatezza del grande disegnatore qual era. Ci troviamo di fronte a schizzi essenziali che raccontano con immediatezza l’idea. I suoi segni sono gli insistiti particolari, gli improvvisi agguati. Segni che animano freneticamente le superfici, vivacizzano le forme siano esse oggetti o esseri viventi. Sono le tracce sommarie di una autoriflessiva appropriazione del racconto inseguito .La dovizia dei segni, delle pennellate sempre diverse e sempre uguali costituiscono il tessuto narrativo del grande visionario. Le intuizioni che diventeranno le sue note composizioni immaginifiche. Il tratto è sempre pulito ed essenziale, senza ripensamenti di sorta, con scioltezza ed immediatezza evidenzia l’idea e soprattutto l’impianto che si tradurrà nei suoi dipinti. Se sostituiamo al tratto veloce della matita la punta del pennello, abbiamo modo di notare che gli abili tocchi delle damine, dei pesci volanti, dei cavalli e dei cavalieri sono fortemente indicati dal disegno. Soltanto la pennellata larga appartiene alle grandi superfici, alle stesure dei cieli delle piazze. Ed è così che l’artista con poeticità racconta il sogno, la percezione del mondo, il suo irripetibile immaginario onirico.

 

1973 La pittura di Calogero. Di Marcello Camillucci. Edizione Galleria Pinacoteca Roma